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La signora Maritsa: ricordi di viaggio e di umanità greca.

By LPellerano   /     Gen 23, 2019  /     Senza categoria  /  

In questi giorni mi è capitato di vedere questa foto, associata alla notizia della morte della signora Maritsa, donna di Lesbo ritratta mentre lei (o forse una sua amica) dà il biberon ad un migrante in fasce.
Quell’immagine di umanità, così semplice ed intuitivamente giusta, mi ha toccato. Lo sguardo curioso e premuroso di tre donne avanti nell’età verso una piccola creatura venuta da lontano, la presa esperta e sicura di una signora che sembra concentrata e determinata a dimostrare che nonostante gli anni è ancora capace di allattare bene un bambino affamato. Un gesto d’attenzione, per non dire d’amore, verso un bambino sconosciuto. Una banalità, mica poi tanto.

La foto mi ha toccato e mi ha fatto tornare alla mente alcuni ricordi. Di Grecia ovviamente.

Uno è la signora Margatita di Schinoussa. Schinoussa è una bellissima isola delle Piccole Cicladi: non grande ma movimentata, secca. Alcune insenature bellissime ed un paese principale abbastanza in alto rispetto al mare.
Ricordo che una mattina volevamo comprare un pacco di fava greca, di fatto piselli secchi di un arancione tenue bellissimo.
Fatto sta che in paese chiediamo dove è possibile trovarla, ci fanno il nome di Margarita e ci indicano il suo negozio. Troviamo una porta socchiusa di una tipica casa greca dall’intonaco bianco. Entriamo e nel buio del contrasto rispetto alla luce di fuori ci accoglie un signora di almeno 80 anni, vestita a lutto. Segue un dialogo per gesti di affetto, non potendo parlare la stessa lingua (se parlassi greco sarei ancora a casa sua). Dopo esserci accordati sull’acquisto di due pacchi di fava greca – per nulla economica – Margarita ci invita a passare dalla stanza d’ingresso dedicata al simil-negozio a camera sua, sul retro. Margarita prima di tutto ci mostra un tavolino con sopra una serie di foto, come un altare. L’altare delle persone a lei care e motivo del suo lutto: ricordo in particolare un uomo in divisa da militare ed un signore col violino.
Ricordo di aver guardato la foto del signore col violino e di aver pensato: “Io questa foto l’ho già vista”. E di essermi poi reso conto che la foto era quella esposta nel salone principale del piccolo traghetto che – da tempo immemore – collega le Piccole Cicladi, l’Express Skopelitis. Al che, chissà come, le ho fatto intendere di aver capito che lei era la vedova del comandante dell’Express Skopelitis. Sarà poi vero? Secondo me sì.
A quel punto Margarita ci ha decisamente preso in simpatia. Prima ci ha portato in un angolo della camera e – con un misto di sofferenza e compiacimento abbinato ad una capacità mimica tutta mediterranea – ci ha aperto una grossa scatola contenente pomate, medicine e medicamenti.
Poi una scena che rimarrà per me indimenticabile: Margarita apre una porta e ci introduce in un angolo di Paradiso in terra. Un terrazzo sul retro della casa, aperto nella luce accecante della mattina greca sull’orizzonte di mare blu (un blu tipo Amorgos, per chi ci è stato) e qualche isola qua e là.
In tutto il terrazzo, a tutte le altezze, decine di secchi di pittura a cui è toccata la felice sorte di una seconda vita. Utilizzati come vasi per ospitare un mondo variegato di piante: fiori di ogni colore, erbe aromatiche, pomodori, insalata. Ricordo un mucchio di api svolazzare da un secchio all’altro e Margarita che comincia a strappare qua e là un po’ di basilico, un garofano, qualche altro fiore. E in meno di 30 secondi prende qualche filo d’erba, fa un giro veloce, un nodo e presenta il mazzetto a Ludovica. E dico ancora grazie a Margarita per averci aperto casa sua, che la vita è fatta di piccoli gesti.

Poi guardando la foto di Margarita e delle sue amiche mi viene in mente Agathonissi. Agathonissi la definirei un’isola a misura di capra, defilata verso la Turchia rispetto alla sequenza delle isole del Dodecaneso.
Ad Agathonissi ci siamo finiti un po’ per caso. Avevamo fatto un’escursione in barca da Lipsi agli isolotti di Arki e ci eravamo portati dietro il bagaglio, uno zainetto a testa con dentro qualche maglietta, due costumi ed un telo da mare.
Ne venivamo da Leros e Kalimnos ed il programma dei giorni successivi prevedeva di passare anche da Patmos. Ma a furia di esaminare la sequenza dei possibili collegamenti via mare ricordo di essere andato in totale confusione e ci siamo trovati di fronte al fatto compiuto, con il motoscafo ormai in viaggio per Agathonissi e l’unica alternativa tra rimanere lì o ritornare a Lipsi.
Ricordo ancora la simpatia dell’equipaggio di quel motoscafo, un vero servizio pubblico tenuto conto delle distanze che percorre, dei consumi e del numero delle persone che vivono nelle isolette che tocca. Forse perché ci avevano visto discutere animatamente (evento più unico che raro) in merito alla debacle logistica nel definire la sequenza delle isole da visitare, ci offrirono il passaggio. Tanto, diranno i commentatori più rigorosi, il servizio pubblico greco lo paga la Germania!
Di Agathonissi ricordo la sensazione di un luogo dove il tempo si ferma, o meglio è scandito da tempi diversi da quelli di tutti i giorni. Passa un traghetto ogni tre giorni, negli altri sei quasi certo che sull’isola non arrivi nessuno.
E ricordo il progetto di fare a piedi il periplo dell’isola. Un progetto ardito, perché ad Agathonissi comandano le capre e piuttosto che facilitare l’accesso alle spiagge e le camminate lungo la costa l’urgenza è quella di impedire il passaggio delle capre nei terreni contigui. Ad un certo punto fummo assaliti da alcuni cani pastore e – nella calura cocente dell’una – ci riparammo all’ombra di un alberello. Più tardi riprendemmo l’esplorazione e nel tentare lo scavalcamento di una cancellata che si spingeva oltre la scogliera per impedire la fuga capresca pensai: “Se qui cadiamo e ci facciamo male nessuno verrà a cercarci e chissà quando ci troveranno…”.
Dalla costa Est di Agathonissi si vede distintamente, vicina, la costa turca e ricordo che nelle calette più strette che abbiamo incontrato lungo il cammino si vedeva accumulata la plastica, il polistirolo, i resti delle reti. Probabilmente in parte si tratta di rifiuti portati verso quell’isola dalle forti correnti che attraversano il braccio di mare che separa due Paesi ai ferri corti, ma anche due mondi che tendono a chiudersi nelle proprie involuzioni e ciclicamente ad allontanarsi uno dall’altro.
Negli anni successivi a quella camminata mi è capitato di leggere di uno dei tanti naufragi avvenuti nelle acque dell’Egeo, di aver letto di sopravvissuti e di vittime. E di un’isola teatro della sciagura, Agathonissi.
Ho immaginato quei luoghi di notte ed ho pensato alla mia infondata preoccupazione di quel giorno: “Se cadiamo e ci facciamo male nessuno verrà a cercarci e chissà quando ci troveranno…”. Ho pensato anche che le correnti di quel braccio di mare avranno spinto sulle calette della nostra vacanza – come i rifiuti – anche i sopravvissuti ed i resti di quel naufragio e chissà di quanti altri che non conosciamo.

Io la foto di Maritsa e delle sue amiche che allattano un piccolo migrante non l’avevo mai vista prima, ma mi ha fatto ricordare alcuni luoghi che amo e l’umanità di alcuni incontri. Mi ha fatto tornare alla mente – per un attimo – la capacità di immaginare (non a caso un verbo che ha la stessa radice dell’immagine) le esperienze umane che stanno dietro le notizie che leggiamo. Per me l’umanità delle signore di Lesbo è stata contagiosa.

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